Capitolo 7: Di Gatti e Falene









“And my running feet could fly
Each breath screaming
“We are all too young to die
Between two lungs, Florence and machine, 2009
io

A volte ho la sensazione di aver usato tutti i tubetti di colla per rimettere insieme i pezzi, sono più forte, ma ogni tanto cado anche io dallo scaffale più alto e mi frantumo. A volte mi sembra di avere più fiato per piangere che per ridere. 

Sono profondamente felice in questo periodo della mia vita, ho avuto un sacco di soddisfazioni, ma è normale che ci siano momenti no. Il dolore è difficile da contenere, catalogare, descrivere. Il dolore ha l’aspetto di un ematoma e fa male come dare un pugno ad un livido. Il suo sapore è amaro e ti lascia uno stato di nausea perenne.

Due giorni fa era proprio lì quel sapore, in gola. Avevo paura di specchiarmi e di non riconoscermi: di vedere solo le occhiaie, il tubo del catetere sul mio braccio incrostato di sangue. Ho visto solo i miei occhi lucidi e i capelli spettinati. Ho visto tanta speranza che aveva paura di sciogliersi, scivolare via troppo velocemente e rigarmi le guance. Ho visto tre nuove lentiggini vicino alla bocca e ho visto un volto che mi è familiare e a cui voglio bene. Nella mia testa rimbombava: fai qualcosa, smettila, svegliati, muoviti. Ho bisogno di calore, non di questo tiepido che mi avvolge. Ho paura ancora di tante cose e a volte me lo dimentico, è che mi piace tanto giocare a non essere me stessa qualche volta. Mi manca l’aria di mezzanotte, mi manca lo zucchero nel caffè, perfino il regionale veloce e Milano mi mancano. 

Ho paura di inciampare in qualcosa che non so ancora come gestire, ho paura di non recuperare ciò che sto perdendo, ho paura di non riuscire a realizzare quello che nella mia testa è impaziente di uscire, ho paura di non finire tutte le parole che non sono ancora riuscita a dire o a scrivere, ho paura di non vivere i miei anni come vorrei. Ho paura di smettere di imparare, di non riuscire a leggere ad alta voce e ho paura di deludermi. Sono forte, resiliente, ironica, ma non sono invincibile. Non è che se ho nuotato nel catrame allora per me sia facile uscirne ogni volta. Sono un orologio che fatica a trovare pezzi di ricambio, ed essere abituati non significa che sia facile. Non ha un filo logico questo capitolo, sono le 2:24 e mi gocciola il naso, non pretendete troppo.

Ci sono momenti in cui vorrei scambiare il mio corpo con qualcuno. Non mi interessa se uomo o donna, anziano o bambino. Solo per provare per ventiquattr’ore quella sensazione, respirare, ma per davvero, al 100%. In realtà mi basterebbe un gatto, una rondine, un topo… mi andrebbe bene anche una falena, vorrei solo ventiquattr’ore, rubare per un giorno i loro respiri e restituirglieli una volta terminato il tempo. Questa è la cosa più vicina all’invidia che provo. Poter camminare sul bordo di una ringhiera, volare verso paesi più caldi, fare una corsa in un parco, ridere fino alle lacrime senza essere interrotta.

Le persone hanno paura di parlare del dolore, hanno paura a dire di non essere felici, hanno paura di sentire un’altra persona parlarne. Ho imparato a mie spese che non bisogna mai soffocarlo, più lo reprimi e più si trasforma in frustrazione. Frustrati si è infelici, non ci sono altre scelte. L’arma è affrontarlo, personalmente penso che scrivere sia il metodo più efficace: in qualche modo lo liberi, lo rendi qualcosa di fisico, concreto e alla fine sono solo fogli scarabocchiati, uno schermo di un computer pieno di lettere una di fila all’altra. Non sono più mostri senza volto e senza corpo, non è più liquido infetto che si espande dentro di te rischiando di farti marcire, li hai rinchiusi e puoi andare avanti, girare pagina per scrivere parole più gioiose.

Bisogna accettare il fatto che il dolore è un vecchio amico che ogni tanto ti bussa alla porta, un amico la cui voce ha il suono delle unghie sulla lavagna.  Voglio una vita calda, non tiepida. Non voglio essere sopraffatta dal dolore, domani andrà meglio e magari mi sveglierò in un gatto o in una falena; non smetterò di credere che i miei piedi che corrono, un giorno, potrebbero volare.

Foto: Lino Budano

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