“Just get me to the airport, put me on a plane
Hurry hurry hurry, before I go insane
I can’t control my fingers, I can’t control my brain
Oh no oh oh oh oh.”
I Wanna be Sedated, Ramones, 1978
Ad oggi sono all’ottavo giorno di terapia endovena, fortunatamente essendo una cura preventiva mi hanno dato la possibilità di farla a casa. Fibrosi Cistica significa anche questo, ricoveri. Il motivo più comune sono le riacutizzazioni, siamo elastici e ci tendiamo in una danza pericolosa, che fermiamo prima di spezzarci irrimediabilmente. Mi ritengo molto fortunata perché il mio primo ricovero è stato a undici anni, o meglio il mio primo vero ricovero, il primo in assoluto l’ho fatto a pochi mesi di vita: con gli aghi nella testa e Sanremo alla tv.
Non fu particolarmente difficile come ricovero, avevo un batterio abbastanza debilitante e fui imbottita di cortisone. Uscii e fu tutto tranquillo finché l’estate stessa non fui ricoverata per una polmonite. Mi ricordo una serie di “troppo”: la febbre troppo alta per troppi giorni, la glicemia che raggiungeva valori da coma iperglicemico, troppi giorni di ricovero, troppi buchi nelle braccia e nelle mani.
Ero ancora nel reparto di degenza pediatrica, i miei genitori si davano il cambio settimanale per stare ventiquattr’ore su ventiquattro con me, dormivano su una poltrona marrone comoda come uno scoglio. Le pareti delle camere erano verdi come anche il tavolino e la sedia, sulle finestre c’erano degli stickers di pluto, l’armadio era blu e le lenzuola bianche usa e getta.
Quando compi diciotto anni puoi rimanere ancora per qualche anno in pediatria, ma i ricoveri devi farli forzatamente nel reparto adulti. Pneumologia, femminile nel mio caso. C’è meno verde e più blu, non ci sono stickers alle finestre, il tavolino è in legno e le lenzuola sempre usa e getta.
Il viaggio in macchina verso l’ospedale di solito è quasi piacevole, forse perché non mi rendo mai perfettamente conto, mi illudo sempre che “va beh qualche settimana di noia che sarà mai”. Guardo le campagne sfrecciare veloci e ascolto musica nelle cuffiette.
Comincio a rendermi conto quando mi siedo nella saletta d’attesa aspettando che sia tutto pronto per la camera. Un check-in subdolo per una vacanza non richiesta.
Il seguito è tutto molto veloce: entri in camera, ti bombardano di domande per compilare la tua cartella clinica, ti attaccano un braccialetto identificativo con un numero e un codice a barre, ti spiegano che terapia farai, quali esami ti hanno programmato, ti infilano un catetere nella vena e tutto comincia. All’inizio è più facile, quello che faccio di solito è prendere carta e penna e fare una sorta di agenda rudimentale, divisa per settimane e con l’ultimo giorno (o meglio quello che io penso sia l’ultimo), evidenziato così tanto da bucare il foglio.
Nel mondo degli adulti i genitori non possono rimanere, quindi arriva un orario in cui devi salutare, devo salutare. Ci diciamo “ciao a domani” sei o sette volte: prima in camera, poi dalla finestrella della porta, via messaggio e in ultimo a voce al telefono. A Brescia dove sono in cura sono circondata da persone meravigliose, dai dottori agli inservienti. Sono come una coperta calda dopo una scarpinata nella neve.
Nonostante questo, però, più passano i giorni e più mi sento meno Angelica e più 011602G081 (era il numero del mio ultimo braccialetto identificativo). Quello che più di ogni altra cosa mi fa stringere il cuore è l’odore della mia pelle: più i giorni passano e più scompare, si neutralizza con l’odore delle lenzuola e finisce con l’odorare di disinfettante. Mi ci avvinghio finché posso, se chiudo gli occhi mi sembra ancora di essere a casa mia. Per questo quando mi portano cambi da casa, asciugamani o altro, li sniffo come una tossica, sperando in qualche modo di far rimanere per sempre l’odore familiare nelle narici.
Le camere sono luminose, ci sono grandi finestre che cerco sempre di mantenere aperte, perché ogni tanto ho bisogno di sentire l’aria e il sole sulle mie braccia, anche solo per qualche secondo. Era il mio passatempo preferito durante il mio ultimo ricovero.
La sveglia è alle sei e questo fortunatamente aiuta ad arrivare a sera abbastanza stanca per prendere sonno velocemente. Ci sono giorni in cui però si fa più fatica, e sento i carrelli dei medicinali sfrecciare per il corridoio, lamenti, tosse, tantissima tosse. Rumori che ti trapanano il cervello e ti fanno venire mal di testa e nervoso, poco importa se sei la prima a tossire, se come te anche gli altri stanno male, la solitudine sviluppa un egoismo che mi fa sentire un animale selvatico.
Mi rigiro nel letto, sbuffo e penso che voglio solo andare a casa, mancano troppi giorni, mancano troppi buchi. Quando arrivo al limite e la testa mi sta per scoppiare faccio un bel respiro e mi accarezzo il braccio: la mia pelle è sempre liscia, il mio respiro è sempre caldo, sono solo le lenzuola ad essere più ruvide. È tutto al suo posto, non è cambiato nulla, il mio corpo è sempre questo e nel buio della notte potrei essere ovunque, anche a casa mia.
Durante l’ultimo ricovero ho ricevuto un compito dalla psicologa: scrivere un racconto fantastico. Diciamo che seguire alla lettera i compiti non è mai stato il mio forte, ma lascio qui di seguito ciò che scrissi, perché penso che possa spiegare molto meglio il ricovero rispetto a tutte queste parole che ho digitato una di seguito all’altra.
Il Drago
Stamattina mi sono svegliata presto, ero agitata. Ieri mi hanno detto che alle undici avrò la Tac. Non faccio nemmeno in tempo a farmi tutti i miei schemi mentali, i miei conti alla rovescia, che già mi chiamano in radiologia. Sono solo le sette, meglio così.
Mi sistemo la mascherina e l’inserviente mi aiuta, sono un po’ imbranata lo ammetto. Camminiamo nel corridoio e chiama anche un secondo paziente che dovrà affrontare l’esame. È un uomo sui quarantacinque anni, grosso, ha il fisico tipico di un giocatore di rugby, non molto alto e con la barba incolta. Cammina come un pinguino e non odora esattamente di mughetto, sudore forse, ma meno pungente.
Entriamo nell’ascensore e l’uomo pinguino chiede cosa sia questa tac e che diavolo dovremo fare.
L’inserviente gli risponde dolcemente, ha notato forse un po’ di timore nell’uomo. In ogni caso lui non sembra totalmente soddisfatto dalla risposta. È abbastanza rozzo, si esprime male, tanto che non sempre riesco a capire quel che dice. Scendiamo in radiologia e sento che respira molto affannosamente, questo mi dispiace, dico davvero.
L’inserviente spiega che dobbiamo sederci in sala d’aspetto e una volta terminato l’esame ritornerà per accompagnarci in camera.
Ci sediamo vicini e mi guardo intorno: non c’è nessuno, “Beh” mi dico, “sono le sette di mattina chi vuoi che ci sia”. Non ho il cellulare, in realtà non ho un bel niente, se non i miei pensieri e il signor pinguino che mi chiede il perché io porti una mascherina (lui non la ha). Gli rispondo in modo sbrigativo con un generico: “mmh per i batteri”, non ho voglia di parlare, non ho voglia di spiegare. Lui mi risponde sempre in modo un po’ confuso di aver capito, sorrido anche se lui non può vederlo.
Mi guardo i piedi nelle mie ciabattine rosa, sposto lo sguardo sulle mani e alle mie unghie tutte smangiucchiate, ma non mi rimprovero, insomma in qualche modo dovrò pur sfogare lo stress.
Guardo il corridoio e penso ai corridoi di casa mia; il pavimento in marmo, i quadri appesi, e vedo sulla sinistra la cucina, la luce calda del sole riflessa sul tavolo di vetro, lo scaffale dove sono ordinati, o meglio disordinati, appunti presi su post-it, chiavi penne e matite.
Il signor Pinguino è al telefono, sta parlando con la moglie, almeno credo. Si sta scusando per l’orario, lo sa che è presto, ma voleva avvisarla che sta per fare la tac. Risponde di sì un paio di volte poi dice: “Dai un bacio alla bambina per me”. Detto questo riattacca. Mi rendo conto di essere stata davvero cattiva con il Signor Pinguino, perlomeno nella mia testa. Guardandolo con più attenzione è palesemente spaventato e disorientato, mi chiedo come possa sentirsi lui, nel mondo degli adulti ormai da anni, grande e grosso, ad avere paura come un bambino che si è perso di domenica pomeriggio in un centro commerciale. Vorrei mettergli una mano sulla spalla e dirgli che non c’è nulla di male, ma non lo faccio. Perché non facciamo mai nulla del genere?
Cerco di ritornare nella mia illusione mentale e ritorno in cucina: vedo il frigorifero in legno di ciliegio, i fornelli e il bancale della cucina, lo tocco e per un frammento di secondo sento sotto le dita il rivestimento ruvido del mobile e mi manca. Mi manca il bancale della cucina.
Davanti a me compare di nuovo il corridoio spoglio del reparto e un’infermiera che passa velocemente davanti a me. Mi chiedo se non stia perdendo il lume della ragione, insomma non penso sia normale provare malinconia per un banale bancale. Penso a luoghi comuni del tipo “apprezzi quello che hai solo quando lo perdi” e beh, si probabile. Il fatto è che penso non sia possibile e normale svegliarsi ogni giorno e baciare il pavimento di casa tua solo perché “un giorno potresti perderlo”. È davvero destabilizzante il fatto che mi manchi un oggetto così ordinario. Devo ritornare subito in me.
Penso che sono coraggiosa, che non posso permettermi di farmi venire il magone per sciocchezze del genere. La porta davanti a me si apre e chiamano il mio nome.
Mentre entro mi chiedo se anche al Signor Pinguino manchi il ripiano della cucina.
Sono tutti gentili, l’operatrice mi fa stendere su una sorta di lettino e chiede se è la prima volta che faccio una tac, rispondo di no. Si allontana e dopo qualche istante il lettino si muove in avanti, posizionandosi sotto l’arco che farà la vera e propria tac.
Sopra di me c’è un piccolo rettangolo che riflette la mia immagine distorta: i miei occhi sono più distanziati e insieme alla mascherina sembro un ranocchio. Una voce maschile al microfono mi dice di fare un respiro profondo e trattenere il fiato, ed io eseguo.
Il lettino avanza ancora ed ora il mio volto è esattamente al centro del macchinario. Vedo nuovamente il mio riflesso che non è più distorto, e qualche ingranaggio che si muove all’interno. Per un attimo faccio finta di essere in qualche film di fantascienza, pronta per l’ibernazione.
L’esame è terminato, entro nello spogliatoio e mi rivesto, esco. Il Signor Pinguino non c’è.
Mi siedo e attendo, dopo una quindicina di minuti esce, sembra stia meglio, sorride. “Hai sentito caldo?” mi chiede sempre sorridendo, gli faccio cenno di no.
“Mi hanno detto che avrei potuto sentire caldo, invece tutto bene! Tutto bene!”. Sorrido sono felice per lui, in qualche modo si è creato un legame, improvvisamente vorrei chiedergli qualcosa, nulla di che, solo per farlo sentire compreso, meno solo.
Siamo simili, almeno per queste settimane. Invece è nuovamente lui che rompe il silenzio, mi chiede quanti anni ho, “ventidue” rispondo. Lui sempre un po’ impacciato dice due o tre frasi che non comprendo e poi mi dice che sua figlia ne ha quattordici, e che aveva capito fossi giovane anche io. Dice altro, vedo nei suoi occhi che pensa alla sua bambina che è a casa, che dorme e a cui sua moglie ha dato un bacio da parte sua, oh spera tanto che se lo sia ricordata.
Il suo tono di voce ora è più sicuro, più felice, in ospedale c’è lui, non la sua bambina.
Durante il ritorno ride e scherza con l’inserviente, ci dirigiamo al reparto di degenza e per poco non finisce contro un muro, troppa euforia forse. Dopo poco arriviamo all’altezza della sua camera e ci salutiamo.
Siamo qui per motivi diversi, problematiche diverse, siamo due persone con due vite totalmente differenti, ma entrambi, prima di rientrare in camera ci spolveriamo gli abiti dalla fuliggine, oggi abbiamo ucciso un drago.