Capitolo 5: Terriccio e colla









Nulla può mutare la tua sorte. Puoi star qui ad aspettare la morte o andare incontro al tuo destino.
Questa è certamente opera di forze malvagie. Forze malvagie che operano in qualche luogo a occidente. Forse il fato vuole che tu vada a vedere cosa accade, con occhi non velati dall’odio. È la tua unica possibilità di salvezza.
Principessa Mononoke, Hayao Miyazaki, 1997
terriccio e colla

Ho un aneddoto che riassume un po’ tutto quello che andrò a raccontare dopo: ho circa due o tre anni e in lontananza inquadro il mio target, ovvero un bambino ignaro e tranquillo, di quelli che si scaccolano il naso in bella mostra perché sono ancora nella fase “mi vergogno, ma sono senza pudore”.  Studio la traiettoria e comincio a correre come una matta, lo raggiungo e lo abbraccio (stritolo) per dichiaragli il mio affetto. Il bambino è disorientato, si mette a piangere disperato. Lo lascio, scappa.

Sinceramente al tempo penso non me ne fosse fregato nulla, insomma il mio obiettivo era stato raggiunto. Con il tempo la mia tecnica è migliorata, sono stata sempre meno invadente e più timida, giuro che non ho fatto piangere nessun altro bambino (forse due o tre coff coff).

Alle elementari avevo i miei amichetti, la classica amica del cuore con cui giochi con le barbie e nel mio caso anche un migliore amico con cui giocavo a wrestling (oltre le barbie naturalmente, Beautiful ci spicciava casa). Alle medie è stato più o meno uguale, ho avuto il mio primo ricovero e mi ricordo che la reazione delle mie amichette era stata quella di accogliermi con tantissime domande, avevo risposto senza problemi e mi aveva fatto piacere. Eravamo piccoli ed era normale vedere un ricovero come qualcosa di cui andare quasi fieri, come se fosse stato un gesto trasgressivo. Un po’ come la mia compagna che andava nei locali a bere, e tornava in casa rientrando dalla finestra.

In prima superiore ho incontrato Davide, Alice, Luca e Orsolina che mi porto dietro da allora e a cui voglio davvero bene. Diciamo che il vero “scontro” se così si può chiamare, l’ho avuto in quella classe, dove le assenze venivano scambiate per mancanza di impegno o intelletto. Addirittura una volta cambiato indirizzo una tipa aveva commentato: “ma Angelica si è iscritta ad un altro liceo? Ma non è mica in grado!”. In ogni caso di scuola ho già parlato, quindi non voglio ripetermi, solamente che le prime amicizie si fanno principalmente in questo ambiente perciò è inevitabile nominarla. In realtà parlare di “quanto siano bastardi gli amici falsi e come toglierli da Facebook”,  mi sembra abbastanza banale e inutile, vorrei parlarne da un altro punto di vista.

Avere a che fare con una persona in una situazione difficile non è di certo una passeggiata, che sia un problema di salute, un lutto o qualsiasi altra cosa. Non siamo tutti psicologi o comunque abbiamo tutti esperienze differenti ed è normale non trovarsi a proprio agio con determinate situazioni.

Con questo non voglio dire di mandare giù tutto e fare finta di niente, ma di andare con calma e cercare il più possibile di guidare l’altro a capire. 

È molto più facile a dirsi naturalmente, perché molti non ne hanno voglia, non conoscono e cercare di capire è troppo impegnativo.

Una malattia fa paura, nei miei coetanei vedo la maggior parte delle volte il rifiuto. Quando comincio a dare qualche nozione in più, spesso vengo bloccata: “No no, non voglio sapere ho il terrore delle malattie”, ed io capisco per carità, non è sicuramente un argomento piacevole, ma se mi vuoi conoscere non posso nascondere questa parte di me, non posso fare finta di nulla, perché prima o poi si mostrerà in un modo o nell’altro. Presto o tardi non riuscirò a parlarti perché avrò troppa tosse, ti chiederò di camminare più lentamente, annullerò una nostra uscita il giorno stesso.

Dire: “non dirmi nulla, non mi piace parlare di malattie” è come dire: “non voglio conoscerti e mi fai paura”, non è sincerità è discriminazione. Ed è profondamente triste, perché fa ritrarre, nascondere. È come una fiamma che ti brucia e ti costringe a ritirare la mano.

Il fatto è che bisogna avere rispetto e cura, altrimenti è inutile definirsi amici. È inutile dire: “Ci sono” se poi quando sono ricoverata ci sono solo silenzi, che sono come terriccio umido e colla che ti entrano nella bocca e nelle narici, promesse che al contrario del terriccio sono sterili e prive di significato.

Di sbagli comunque con i miei coetanei ne ho fatti anche io, errori pericolosi che fortunatamente ho corretto.

Il problema deriva dal fatto che ancora prima di imparare a scrivere “Fibrosi Cistica”, ancora prima di sapere cosa sia, impariamo a gestire questa verità con gli altri, quali informazioni dare e in che misura.

Questo mi ha sempre portata a seppellire, mascherare con ironia (troppa) tutto. L’ironia e l’autoironia fanno bene e io ne sono una grande amante, bisogna saper sdrammatizzare perché altrimenti verremmo schiacciati. Il mio errore, fino ad un anno fa è stato quello di abusarne: mostrandomi sempre felice, senza paura.

Anche giorni in cui faticavo a fare due scalini, a parlare e camminare contemporaneamente, andava sempre “tutto bene”, una risposta meccanica che con voce metallica continuavo a ripetere a chiunque si interessasse. Se venivo ricoverata era un “ah ma sono abituata”, che in realtà è vero, ma con questo atteggiamento fomenti la superficialità, la legittimi e quando torni a casa implodi. Il vaso dove hai nascosto tutto si frantuma nella tua testa e i frammenti si spargono ovunque aprendo una miriade di ferite, a cui non bastano garze o punti per rimarginarsi.

Alcune cose pesanti devono rimanere pesanti, mi è stato detto. Non c’è nulla di male a dire: “oggi non è una buona giornata”, è giusto anche nei confronti dell’altra persona essere sinceri, perché non è detto che l’altro non sappia tirarti su di morale, aiutarti a sdrammatizzare. Essere sinceri è sempre la scelta giusta, anche per le gaffe che possono capitare. Può succedere che l’altro faccia un’uscita poco carina, perché purtroppo è semplice ferire. 

Basta un: “ah ti sei persa questa notiziona, eh ma tu non ci sei mai”, “Eh ma tossisci sempre?”, “ Oddio non è che mi attacchi qualcosa? stammi lontana”. Sì, sono tutte cose che mi sono state dette con “ironia”, (ci vorrebbero molte più virgolette).  Sono questi i momenti in cui tutti i pensieri sotterranei scavano con le unghie in quel terreno dove vengono esiliati, una volta dissotterrati cominciano ad urlare dentro di me ed io chiudo gli occhi, li stringo fino a farmi male.

Bisogna sempre rispondere, con educazione, spiegare che ti ha ferito ciò che è stato detto, e chiedere più delicatezza in futuro, poi starà a lui o lei decidere se modificare il suo atteggiamento o meno. A volte sono troppo accecata dal dolore, e non riesco a comprendere che davanti a me c’è magari semplicemente una persona che si è espressa male. Ho imparato che questo è l’atteggiamento vincente, a volte le persone possono stupire, e aiutarli a capire è il favore più grande che possiamo fargli, ma che possiamo fare soprattutto a noi stessi.

Non esistono mostri, solo persone.

Una delle ragioni per la quale ho deciso di aprire questo blog è proprio legata a questo, io ho fiducia negli esseri umani, ho fiducia dei miei coetanei, e raccontandomi, togliendo quel velo che spesso mi impedisce di essere vista dagli altri, spero davvero di star facendo la cosa giusta.

Abbiamo bisogno di intelligenza umana, di occhi disposti a leggere tutti i nostri capitoli e spronarci a continuare a scrivere.

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