Capitolo 55: Anormale









 Well, we know where we’re goin’
But we don’t know where we’ve been
And we know what we’re knowin’
But we can’t say what we’ve seen”
Road to Nowhere, Talkin Heads, 1985

Quando avevo cinque anni prendevo gli enzimi prima dei pasti, consapevole che attorno a me nessun altro li assumeva, ma non mi sentivo diversa.

Quando avevo cinque anni ogni tre mesi mi alzavo alle 6:30, salivo in macchina con i miei genitori e andavamo a Parma per il controllo di routine, ma non mi sono mai sentita diversa.

Quando avevo cinque anni facevo tanti esami che sapevo facessi solo io, ero consapevole che tutti quei prelievi, ecografie, radiografie, spirometrie, non li facevano gli altri. Ma non mi sentivo diversa.

Quando avevo cinque anni e facevo cicli di antibiotici sapevo che a farli ero solo io, ma non mi sono mai sentita diversa.

Quando avevo cinque anni non ero consapevole che ci fossero altre persone che facevano le mie stesse cose, che avessero vissuto le stesse sveglie, le stesse visite, le stesse pastiglie. Pensavo di essere l’unica al mondo, ma nonostante questo non mi sono mai sentita diversa.

A settembre dei miei sei anni sono entrata nel vivo della società: una società protetta, di bambini, ma pur sempre una società. Progressivamente da quel giorno ho cominciato a capire, o meglio, mi ci hanno fatto credere gli altri, che così uguale non lo ero proprio.

Quelle visite, quelle medicine, quegli esami, quelle mani, quella cicatrice, normale non lo era.

Più avanti quelle assenze, quella fatica, quell’affanno, quella tosse, quei ricoveri, normali non lo erano.

In un mondo che chiede il 1000%  e tu non arrivi al 50% sei tu il problema, sei tu che sei inaffidabile perché a volte manchi, non sei una risorsa ma un peso, “quella che è diversa”.

E non te lo dice solo la singola persona, te lo dice l’ente, le risorse umane, l’ospedale, il datore di lavoro, la società.

Ti senti urlare ogni singolo giorno, in modi diversi e con mezzi diversi che tu, abbastanza, non lo sei. 

Usano giri di parole o il silenzio, la dolcezza o l’aggressività, sono menefreghisti o volenterosi di sottolineare la tua inadeguatezza.

E per questo si, hanno pienamente ragione ed io mi sbagliavo, non sono normale, sono diversa.

Ma chi è normale? Quali sono i canoni e chi lo è davvero? In quanti rientrano perfettamente nei canoni?

Non sono utile, sono inadeguata, ed è ancora vero e avevo nuovamente torto.

Per questa società, per quello che offre e il modo per ottenerlo sono inadeguata, sono un oggetto rotto e fuori modello per il quale non ci sono più pezzi di ricambio. 

Io spero ancora in un mondo in cui diverso ha un’accezione positiva, in cui ad essere diversa è solo la quotidianità, il vissuto, son diverse le gioie come le disgrazie.

Dove la diversità è varietà e non una parolaccia, dove non è un sinonimo di “non abbastanza per…”.

Un mondo dove sentirsi come Angelica di cinque anni è uguaglianza e diversità assieme. 

È la mia speranza per far sì che nessuno si possa sentire isolato in una società che non ti vuole

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