Capitolo 4: Carillon Ammaccati









“Uno, non toccare le lancette.
Due, domina la rabbia.
Tre, non innamorarti, mai e poi mai.
Altrimenti, nell’orologio del tuo cuore, la grande lancetta delle ore ti trafiggerà per sempre la pelle, le tue ossa si frantumeranno,
E la meccanica del cuore andrà di nuovo in pezzi.”
Mathias Malzieu, La meccanica del cuore, 2007
luce delle tapparelle

Solitamente amo dormire, ho il sonno pesante e mia madre mi dice sempre che sembro morta da quanto il mio respiro si faccia impercettibile. Ci sono notti in cui però un pensiero che alla luce del sole può essere pioggia, con il favore delle tenebre si fa temporale ed io mi ritrovo senza ombrello a cercare un riparo. 

L’altra notte, mentre fuggivo dalle intemperie, sono inciampata e sono caduta, ed è per colpa di questa mia mancanza di coordinazione che vi ritrovate a leggere questo mio nuovo capitolo.

Ho ventitré anni, ma di amore penso di saperne un pochino. Sono sempre stata circondata dall’amore più puro e profondo che si possa conoscere: quello dei miei genitori. L’amore lo riconosco in mia madre che mi fa compagnia se ho delle crisi di tosse durante la notte, è in mio padre che si fa Milano (lavoro) – Piacenza – Brescia – Piacenza tutti i giorni in macchina quando sono ricoverata, è nelle parole di Davide quando mi chiede mille volte al giorno come sto, l’amore lo ritrovo nel mio bassotto che mi regala il suo osso quando rientro.

Se parliamo di amore da commedia romantica, corse in aeroporto e altri fenomeni paranormali, ho ben poca esperienza. 

Conosco poco e per quello che ho vissuto non ho visto di certo il meglio. Non sono qui per fare la vittima o mandare un messaggio tra le righe del tipo: “devo trovare marito, se sei single scrivimi”, assolutamente no. Semplicemente sono giovane, e sebbene io sia dentro una vecchia cinica che ama la solitudine, ogni tanto ci penso anche io, alle famose “relazioni romantiche”.

Ho avuto il mio primo fidanzatino in prima elementare, passavamo i pomeriggi a riguardare “Il Signore degli Anelli” e l’ho conquistato imitando Gollum. Essendo ingenua, e totalmente ignorante, ho passato tutta la mia infanzia e preadolescenza ad immaginare la mia vita adulta come la Carica dei 101, trovando l’amore e tanti cuccioli nel giro di breve tempo.

La mia prima ed unica storia seria risale a due anni fa,  ho provato la classica sensazione di aver trovato il mio porto sicuro, e ammetto che per un po’ di tempo è stato così.  Sfortuna, (o fortuna), ha voluto che arrivasse come un fulmine a ciel sereno il momento più difficile di tutta la mia vita. Una colata di cemento è stata scaraventata senza preavviso sulla mia bolla felice, facendola diventare pesante ed ingombrante. Sono stata ricoverata in un reparto diverso dal solito, non più pneumologia, ma malattie infettive, per colpa di un batterio presente nel mio corpo e di cui non si capiva la gravità. 

Ho sofferto, ho avuto paura e mi sono sentita completamente impotente, intrappolata nel mio stesso corpo.

Se gli esami avessero dato esito negativo la cura del batterio in questione prevedeva più di un anno di degenza in ospedale. Fortunatamente non c’è stato bisogno di trattarlo, ma la minaccia è sempre presente su di me, prima o poi potrebbe bussare ai polmoni e dichiarargli guerra. Tornai a casa, ma stavo ancora male. Avevo iniziato l’università a Milano, seguii le lezioni per quasi tre settimane, poi il mio corpo non fu più d’accordo a collaborare. Mi ricordo ancora che l’ultimo giorno in cui tornai a casa dalle lezioni provai a correre sulle scale che portano al binario, tossii, scivolai e mi spezzai due unghie a metà.

In quel periodo ero frustrata, triste, depressa. Depressa. Cercai di sfogarmi con il mio ragazzo, perché parlare, per me, è sempre stato un unguento potente. Si ritraeva, mi zittiva e diceva di parlare d’altro, di cosa esattamente non lo so. Gli indoravo la pillola, rimaneggiavo e rimodellavo sempre le informazioni sulla mia salute per non appesantirlo. Carmen Consoli scrisse “Brucia sul viso come gocce di limone”, questo sentivo ad ogni silenzio, ad ogni sguardo distolto.  Scrissi la parola  fine solo dopo essere stata aggredita con lame incandescenti.

Mi disse che godevo ad essere “quella che prende le medicine, quella malata”.  Lo perdonai inizialmente, ma poco dopo capii che per stare meglio dovevo allontanarmi dal veleno che stavo respirando con lui.

Il grande problema, secondo me, è la spasmodica ricerca di perfezione. Si sente parlare della “bellezza delle imperfezioni”, ma le persone in genere per queste intendono: cicatrici, smagliature, un naso troppo grande, perfino le lentiggini sono considerate imperfezioni. È difficile e frustrante parlare di imperfezioni interne, di qualcosa che è già ammaccato in partenza ed è più grande di qualsiasi naso e più profondo di qualsiasi cicatrice. Spaventa, ritrae, inganna e con l’amore non ha nulla in comune. 

L’altra notte ho scritto: “trovare un Carillon in una vecchia soffitta e pretendere che funzioni, rendersi conto che la sua melodia è ormai compromessa e gettarlo via distrattamente”.

Sono sempre stata una melodia disarmonica, a volte non mi dispiace ed altre vorrei strapparmi i meccanismi e spegnere la musica.

Un po’ di tempo fa mi sono detta: “Angelica lascia stare, come puoi pretendere di buttare addosso una verità così immensa ed aspettarti che l’altro la accetti”. In questo mi aiutò proprio Davide che mi chiese se a parer mio meritassi di essere felice. Si, meritiamo tutti la felicità, meritiamo tutti un po’ di leggerezza.

Al momento non ho più pensieri così patetici, ogni tanto paura la ho, lo ammetto. Di solito cerco di rimanere sulla difensiva, è più sicuro rimanere nel mio bunker invisibile, forse perché è proprio questo il mio punto debole: essere toccata in quella sfera nascosta e in piena vista allo stesso tempo, perché nel caso venisse maneggiata con noncuranza io soffrirei, soffrirei e non posso farci nulla.

La mia bolla è confortante, mi culla e mi accarezza il viso nei momenti di profonda solitudine. Mi amo e mi basto, ma mentirei se dicessi che non vorrei ogni tanto fare finta di non avere nulla da dire

Vorrei che il mio massimo disagio fosse mostrarmi struccata, non con lividi sulle braccia a causa degli aghi.

Vorrei avere il rossetto sui denti mentre sorrido e non una mascherina che lo nasconda, vorrei così tante cose che non finirei più.

Questa estate la psicologa mi disse una frase, e dentro di me so che ha ragione:”Le persone valide ci sono, esistono”.  Ne sono convinta, ne ho un esempio davanti ai miei occhi tutti i giorni: mio papà, che è l’uomo migliore che io conosca, l’essere umano insieme a mia mamma dall’animo più nobile. 

Viviamo in un mondo veloce, che ti calpesta i piedi e ti fa inciampare, viviamo di tosse assordante e di parole mute, ma in tutta questa confusione gli esseri umani esistono ancora, ed io ringrazio la casualità, lo gnocco fritto e un giro in moto per avermi permesso di incontrare mia mamma e mio papà.

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