Capitolo 3: Bendata e con un procione al guinzaglio






I think I lost my way
Getting good at starting over
Every time that I return
Learning to walk again
I believe I’ve waited long enough
Where do I begin?
Learning to talk again
Can’t you see I’ve waited long enough?
Where do I begin?
Walk, Foo Fighters, 2011.
mepiccola

Questa mattina mi sono svegliata abbastanza in ansia, a causa di varie scadenze scolastiche e non, da portare a termine. È un periodo in cui si sovrappongono tanti avvenimenti e mi ritrovo ad avere mille pensieri che girano in loop, tanto che spesso ho paura di dimenticare qualcosa per strada o di non riuscire a fare tutto come vorrei. Al tempo stesso però, mi sento soddisfatta, felice, forse perché penso a tutta quella che è stata la mia vita scolastica e se confronto lo stress di allora con la tensione di ora, mi rendo conto che non potrebbe andarmi meglio. Come avevo anticipato in precedenza tutta la mia avventura scolastica è stata abbastanza difficile.

I primi giorni di scuola, almeno per come li vivevo io, erano sempre il momento in cui ti senti grande, convinta che sarà la svolta, si ricomincia, andrà meglio. Un’illusione che dentro di te sai perfettamente essere falsa, ma a cui alla fine credi ciecamente. 

La mia permanenza nella scuola materna era stata costellata da: pianti, convinzione di essere abbandonata per sempre, immaginarsi nell’immediato futuro a vendere fiammiferi in strada e morire in mezzo alla neve.

Quindi il mio primo giorno di elementari sentivo nell’aria odore di cambiamento, la fine dell’analfabetismo e l’inizio di legami indissolubili. Diciamo che almeno la prima aspettativa citata è stata realizzata, per quanto riguarda la seconda avrei faticato più del previsto.

Devo comunque ammettere che le elementari non sono state così male, mi ricordo che al tempo non prendevo gli enzimi interi, li aprivo e lasciavo il rivestimento da parte. Questo generava un sacco di popolarità in mensa, e le reazioni tipiche  dei miei compagni erano le seguenti: “Uhhh ma prendi delle medicine! Ma li butti i gusci? me li regali?” a quel punto partivano le gare del lancio del rivestimento, o “vediamo quanto ci mette a sciogliersi nell’acqua”. 

In realtà i problemi c’erano, semplicemente accadevano lontani dai miei occhi e dalle mie orecchie. Il mio maestro di allora, mi raccontarono i miei tempo dopo, aveva fatto storie per quanto riguarda un colloquio a cui avrebbe dovuto partecipare con i miei genitori e una dietista (ho sempre dovuto seguire una dieta ipercalorica, e quindi, in caso di permanenza in mensa, era necessario fare un piano dietetico).

Anche le medie sono state un momento abbastanza tranquillo, ho avuto i miei primi problemi seri di salute, ma nulla da dire per quanto riguarda gli insegnanti, le difficoltà erano quelle tipiche del periodo: brufoli, bulletti, e il sentimento di inadeguatezza perenne. Mi ricordo un magico momento di imbarazzo totale in seconda media, in cui una mia compagna mi urlò dall’altro capo dell’aula: “Angelica hai la patta tutta giù!”. In realtà lo disse molto tranquillamente e senza cattiveria, ma io e le mie mutande con gli orsetti ci ricordiamo molto bene la voglia di tagliarle la testa ed esporla come trofeo in casa.

Sto divagando in realtà, forse perché mi fa male mettere nero su bianco questa esperienza, adesso la smetto di girarci intorno, promesso.

Fortunatamente gli anni sono passati, i brufoli se ne sono andati e mi sono iscritta al Liceo Classico, scelta sorretta con valide argomentazioni del tipo “Ma che bello il greco, non sembra così difficile!”, “Il Liceo Classico è l’indirizzo più completo, lo dicono tutti”, “Studiare 12 ore al giorno? Un gioco da ragazzi”.

In ogni caso, oltre al fatto che non fosse minimamente l’indirizzo adatto a me, ci fu un altro problema ben più grave: rimasi a casa per quasi due mesi (per salute inizialmente e poi feci fatica a trovare la forza di rientrare, per ansia e paura di essere ormai incapace di recuperare tutto).  La coordinatrice di classe chiamò i miei genitori pensando ad un abbandono scolastico, e scoprimmo in quel frangente che, sebbene a inizio anno i miei avessero chiarito alla preside la mia situazione, quest’ultima non aveva minimamente avvisato gli insegnanti. Ritornai in classe e non ricevetti alcun aiuto o sostegno, e ad aumentare questo disagio per la maggior parte dei compagni ero quella che non ci arrivava, che non studiava, una fallita insomma. Inutile dire che persi l’anno e cambiai indirizzo.

Ritornando indietro però penso mi iscriverei ancora al classico, lì ho incontrato amici che mi porto dietro fino ad ora e a cui tengo davvero tanto.

Così cominciò un nuovo primo giorno di scuola non previsto, Liceo delle Scienze Umane. Ci tengo subito a chiarire che era la strada giusta, le materie mi piacevano molto e ho incontrato professori e professoresse davvero speciali. La differenza, nel bene e nel male infatti, la fanno sempre le persone.

Il triennio è stato abbastanza pacifico, i problemi erano quelli standard di qualsiasi studente. Venne anche stilato una sorta di documento, che mi offriva delle agevolazioni data la mia situazione (ad esempio potevo farmi interrogare a pezzi, suddividendo gli argomenti concordando il tutto con il professore in questione).  Il tracollo avvenne in quarta superiore, cambiarono alcuni insegnanti e la mia salute duplicò i miei giorni di assenza.

All’improvviso ero l’imbrogliona, quella che faceva tantissime assenze, ma partecipava alla gita, quella che programmava quando stare a casa, che se prendeva buoni voti non era merito suo, ma della compagna di banco che le passava gli appunti se assente.

Il fatto è che la Fibrosi Cistica è una malattia “invisibile”, ad occhio nudo puoi vedere una ragazza curata, giovane, che sorride e scherza, quindi non riesci a concepire che ci sia qualcosa di infetto, malato, rotto. Per questo ho sempre avuto problemi, in primis al liceo, ad essere vista e non guardata. Anche le mie compagne, legittimate dal trattamento che mi veniva riservato dai professori, si permettevano di giudicare, di indignarsi se chiedevo di spostare un’interrogazione, se partecipavo ad un’uscita. 

Un avvenimento che mi viene in mente è legato alla gita di quarta superiore: quattro giorni a Londra. Nonostante il benestare della mia dottoressa, professori e compagne me l’hanno fatta pagare in tutti i modi possibili la mia partecipazione, entrambe le parti affermavano che era impossibile che io partissi se stavo “così male”, doveva esserci sotto qualcosa per forza. 

Purtroppo non bastano tutte le prove e i documenti del mondo per tutelarci, non sono sufficienti a vivere in un ambiente sereno, in cui essere compresi o anche solo accettati.

In quinta superiore ho avuto un ricovero di una quindicina di giorni, sono stata dimessa di sabato e lunedì ero a scuola.  

Quando si parla di Fibrosi Cistica, una cosa che quasi mai viene citata è la solitudine. È facilissimo darci degli imbroglioni ed è difficile chiedere “come stai?”.

Durante quel ricovero non ho ricevuto nessun messaggio da quelle che pensavo fossero mie amiche in classe. Il bentornato è stato: “oh come farai adesso a recuperare tutto?” Avrei risposto volentieri: “pensavo di buttarmi dal terzo piano mentre mi taglio le vene che ne dici?”, ma rimasi zitta perché al tempo non sapevo rispondere, incassavo e basta. Ti ritrovi sola in un ambiente che non vuole conoscerti, non vuole problemi e pensa che sia una perdita di tempo modificare i suoi programmi per tenderti la mano.

Mi ricordo che ci rimasi male quando anche il professore di religione, di cui avevo una buona opinione, mi ignorò completamente durante la mia prima lezione con lui dopo il ricovero, accorgendosi di me solo a fine lezione e dicendomi un frettoloso “ah, sei tornata”. Ci rimasi male, molto di più rispetto ad altri trattamenti ben peggiori, forse perché l’indifferenza è il peggio che ti possa capitare.

L’unica cosa che ancora adesso non capisco è l’accanimento, l’ironia amara che mi veniva servita spesso e senza motivo. Ad esempio quando, (sempre la settimana del mio rientro), in cui era programmata una verifica di matematica, alla mia domanda alla professoressa in questione se avessi dovuto portare gli stessi argomenti, la risposta fu, con aggiunta anche di sorriso ironico: “Beh porti tutto, poi se fai così schifo la recupererai con un’interrogazione come gli altri”.

Il risultato di tutte queste esperienze è stato particolare: da una parte mi ha reso più forte e pronta a rimanere a galla in qualsiasi situazione, dall’altra mi ha reso insicura e con il dovere di giustificarmi sempre, di provare un senso di colpa profondo ogni volta che facevo un’assenza in più.

Affrontare il liceo è stato un po’ come attraversare la strada a Milano bendati, con un procione al guinzaglio.

Ad ogni modo, per far sì che questo flusso di coscienza possa  portare a qualcosa di buono, voglio concludere dicendo che in questi casi l’unica soluzione possibile è denunciare, io in quarta superiore non ho voluto, ero terrorizzata e pensavo che avrebbe peggiorato la mia situazione e che non sarei mai uscita da quella scuola se lo avessi fatto. In quinta mi sono decisa e ho permesso ai miei genitori di parlare con la preside, che ha messo a posto chi lo meritava e ho avuto una fine dell’anno più serena.

La Fibrosi cistica è si una malattia che non si vede ad occhio nudo: ho tutti gli arti, non ho bisogno di un bastone per sorreggermi e ho tutti i capelli sulla testa. Bellezza esteriore non corrisponde a sanità interiore, purtroppo dovremo sempre combattere contro occhi superficiali, la differenza la possiamo fare noi, usando una potente arma invisibile: la nostra voce.

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