Capitolo 16: Scatole di vetro









Cerco di adeguarmi
Ma non so nemmeno quanto e come, se e perché ci sia attenzione
Sento che mi guardi
Ma non so se è il posto giusto o è solamente un’immaginazione”.
Per un bacio, Margherita Vicario, 2014.
sissi

Sono le 9 e di fianco ho Sissi, bassottina sovrappeso di 10 anni che mi guarda come per dirmi: no dai, rimaniamo a letto che problema c’è?

Le dico di scendere, la spintono, lei si mette a pancia all’aria beata, bloccandomi il passaggio. Dall’altra parte c’è il muro, quindi o decide di farmi passare o dovrò prenderla di peso e metterla per terra. Non le piacerà. Si lamenta, ma ormai rassegnata corre in cucina, sperando di trovare qualche biscottino da mangiucchiare. 

Mi siedo a tavola, mia mamma mi ha preparato una tazza enorme di cappuccino e di fianco tutto il materiale per misurare la glicemia. Bisogna farsi un piccolo buco sul dito e farlo scivolare nella striscia per misurare, mi guardo tutte le dita della mano sinistra, e scelgo con attenzione un angolino non ancora martoriato, certo potrei bucarmi per una volta la mano destra, ma ho seri problemi ad impugnare con la sinistra, quindi non mi lamento, è colpa mia.

Esce una piccolissima goccia di sangue rosso vivo, non basta, mi stringo il dito e lo spremo come un limone finché non esce una quantità soddisfacente, non fa male.

Aspetto qualche secondo e  il valore lampeggia sul piccolo schermo: 80, va bene, ma tanto al mattino va sempre bene. 

Bevo velocemente la mia tazza di latte, senza biscotti, fette biscottate o altro. È tutto rapido, mando giù come se fosse liquido insapore. Io odio la colazione, mi sembra una forzatura, se dipendesse da me non la farei nemmeno. Qualcosa però devo ingerire, altrimenti tutte quelle compresse chi le inghiotte? A volte le divido, quelle più scivolose e strette le prendo subito, una dietro l’altra con piccoli sorsi d’acqua. Quelle più grosse, che scivolano a fatica dopo bicchieri interi le prendo a pranzo, altrimenti vomito,  dico letteralmente.

Sistemo la tazza nel lavandino e vado in camera mia, apro l’armadio e prendo il borsone che contiene la BiPaP. Un macchinario che mi permette di fare meno fatica possibile durante il mio drenaggio.

Mi siedo sul divano, la monto rapidamente e attacco la spina. Il macchinario si collega ad un tubo a cui è attaccata all’estremità una mascherina, guardandomi allo specchio sembro un elefante. Il timer è impostato su venti minuti e dalla proboscide artificiale comincia ad arrivare il getto d’aria. Respiro tranquillamente ed ogni tanto mi spremo di nuovo, questa volta però lo faccio con i miei polmoni. Inspiro, trattengo ed espiro rapidamente. Li sento crepitare mentre cercano di trattenere a sé tutto quel catarro colloso che mi blocca il fiato e mi taglia le caviglie.

Quando però riesco a tirarlo fuori è soddisfacente, nonostante il sapore amaro e la consistenza viscosa che mi riempie la bocca.

 Non c’è nulla di delicato nella mia routine, nulla di affascinante o poetico. È  meccanico e ripetitivo. 

Il momento degli aerosol è più tranquillo: il primo è un composto a base di sale, molto semplice in realtà, ma che appena arriva in gola pizzica e comincio a tossire fin quasi a vomitare, gli occhi si riempiono di lacrime calde, quasi bollenti e comincio a sudare anche se è pieno inverno. Dopo qualche minuto il pizzicore si placa e posso ammazzare il tempo scrollando i social come uno zombie. 

Il secondo aerosol è un antibiotico che non mi fa tossire né sudare, ma tanto sono già  in condizioni pessime.

Se tutto va bene, circa due ore dopo aver buttato giù dal letto Sissi, posso lavarmi. 

La bocca è amara e sono madida di sudore. Prima di cominciare la BiPaP ci mettevo quaranta minuti solo per il drenaggio, senza nessun supporto lo sforzo era il doppio, se non il triplo. La gola bruciava, sentivo i miei polmoni accartocciarsi ad ogni espirazione ed oltre all’amaro sentivo anche quello ferroso del sangue. A volte era così sfiancante che non andavo a Milano a lezione, ero troppo provata, esausta.

Lontano dall’antibiotico ci sarà un altro aerosol ancora da dover fare e stasera sarà da ripetere tutto da capo, medicine comprese. 

La mia quotidianità è metodica, precisa. Devo incastrare tutto ciò che faccio, organizzarmi e non sempre riesco a farci stare ogni cosa. Non sopporto quando mi sento dire: “Beh ma poi ci organizziamo all’ultimo”. Non posso permettermelo, più di una volta mi è stato dato l’appellativo di ansiosa con qualche problema di controllo. La verità è che sono in equilibrio su un filo, con mille scatole di vetro in mano.

Anni fa odiavo tutto questo, era una soffocante tortura che non mi permetteva di vivere, di essere spensierata o semplicemente di essere come tutti gli altri. Non che ora mi piaccia sia chiaro, ma è tempo. Tempo che faticosamente mi guadagno, un orologio che carico per aumentare le mie risate, il mio passo o anche solo per sbadigliare. Come orologiaia non sono perfetta, non sono una supereroina e sbagliate di grosso se lo pensate. Cerco di barattare tempo con altro tempo in un mercato che non è né generoso né comprensivo. 

Forse prima o poi potrò svegliarmi senza correre, prendere solo una compressa e non avere problemi ad organizzarsi all’ultimo, forse un giorno potrò annoiarmi anche io.

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