Capitolo 15: Inchiostro Umido









Didn’t want to be your ghost
Didn’t want to be anyone’s ghost
Didn’t want to be your ghost
Didn’t want to be anyone’s ghost
But I don’t want anybody else
I don’t want anybody else
Anyone’s ghost, The National, 2010.
io finestra

Il contesto, mi sono sempre ripetuta, era l’unica cosa che contava. In mezzo ad un cumulo di gente è più semplice spiccare, sottile la linea dal più bravo al meno peggio. Ma nel grande mazzo, nella vastità sconfinata di cervelli, occhi, esseri umani? Me la sarei cavata? Avrei fatto la differenza? Cosa  significa fare la differenza? Ed è davvero importante? Forse dipende dal contesto, appunto.

In un brodo caldo e melmoso in cui devi mostrarti perfetta, affabile, gentile e indipendente non è semplice dire: “Ah, ho una malattia genetica degenerativa”. Tralasciando che non userei di certo queste esatte parole, le reazioni sono davvero svariate e ancora adesso mi ritrovo a chiedermi quale sarà il momento più adatto per dirlo. In realtà sarà sempre il momento giusto e sbagliato, personalmente aspetto che venga fuori l’argomento, le rivelazioni a freddo mi hanno sempre messa a disagio. Ho assistito a infinite reazioni diverse: chi mostra pietà, chi capisce, chi sembra capire e poi si accende tranquillamente una sigaretta davanti a te, e chi, come la gente che si mette il gilet ad Agosto, in apparenza sembra non sortire alcun effetto dalla tua rivelazione, dice “ok” e mette un punto al discorso senza troppi ossequi. 

Non è facile comprendere, lo ammetto. È una malattia talmente diversa da caso a caso che anche io a volte non so definirla. 

Da piccola ogni tanto coloravo. I classici fogli stampati in bianco e nero, fatti apposta per insegnare alle menti infantili a stare fin da subito dentro un confine, un limite, al proprio posto. Provavo a rimanerci, dentro il tracciato scuro che puzzava di inchiostro economico, ma fallivo in continuazione e il colore del pennarello si mischiava a quel tratto ancora umido e pastoso. Per pulire la punta sceglievo una parte del foglio che fosse rimasta vergine e velocemente premevo e strofinavo il povero pennarello ormai in stadio terminale, che sarebbe stato buttato nel cestino poco dopo. Avere a che fare con la Fibrosi Cistica è esattamente così. 

Quindi dire: “Ho questa malattia” non è semplice perché è solo una frase che il contesto ha reso spaventosa, ma al tempo stesso è l’unico modo in cui puoi dirlo chiaramente. Il più delle volte mi sento un cane che si morde la coda, incapace di esprimermi in modo totale, perché già a “malatt” gli altri ti hanno già catalogata, ridotta, riassunta e contestualizzata.

Una “malattia” non è mai solo una malattia, è un fiammifero acceso lasciato cadere su un fiume di benzina, è un pennarello, sporco irrimediabilmente d’inchiostro. Se solo riuscissi a mostrarmi oltre parole vuote, oltre l’epidermide, i denti e i vasi sanguigni, sarebbe tutto più semplice, completo e profondo. 

Non posso però aprirmi un varco in mezzo al petto, perché mostrerei me stessa solo nel bellissimo mondo delle idee e delle metafore, qui sulla terra morirei nel mio sangue e mostrerei forse solo qualche osso se riuscissi a scavare abbastanza a fondo.

Quindi uso anche io parole scelte da altri sperando di combinarle in modo efficace senza spaventare nessuno.  Equilibristi traballanti sopra inchiostro bollente, cerchiamo ovunque reti sicure: che sia un dio, un amico, un farmaco o tutto questo insieme, intrecciato con cura. 

Io comunque i miei pennarelli rovinati non li butto, li sistemerò al sicuro in un cassetto sperando che un giorno potranno ritrovarsi forse, insieme a me. 

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