Capitolo 1: Non credo in dio, ma nel culo






“Ciononostante mi fa male raccontarla più e più volte. Una bastava: non mi era bastata una volta, a suo tempo? Ma continuerò questa triste, arida, squallida storia, zoppicante e mutilata, perché voglio che tu la senta, come sentirei la tua se mai ne avessi l’occasione, se ti incontrassi mentre fuggi nel futuro o in cielo o in prigione o sottoterra, ovunque.”
Margaret Atwood, Il Racconto dell’ancella, 1985.
non credo in dio

Cos’è la Fibrosi Cistica per me?

Non è semplice come domanda, siamo cresciute assieme nel vero senso della parola: da piccole eravamo conoscenti, lei era una presenza quasi invisibile e si presentava solo se non prendevo, o sbagliavo le dosi degli enzimi

Da piccola la Fibrosi Cistica aveva la forma delle pillole, degli antibiotici e dei mal di pancia, nulla di più. Spiegavo a chi me lo chiedeva che gli enzimi servivano per non farmi venire il cagotto, e in effetti era così, ignoravo tutto il resto perché Lei non me lo aveva fortunatamente ancora fatto conoscere.

Il primo incontro che ho avuto è stato durante la prima media: era l’ora di educazione fisica e stavo correndo insieme ai miei compagni intorno al cortile interno della scuola. Primo giro, un colpo di tosse. Secondo giro, due colpi di tosse. Terzo giro, mi scoppiano i polmoni, mi fermo.

Mi ricordo perfettamente quel momento: non ero preoccupata o spaventata, non capivo perché fossi già esausta nonostante fossi solo al terzo giro, perché gli altri andavano avanti tranquillamente e io no? Ero disorientata, frustrata, furiosa. Avevo insistito e mi ero rimessa a correre, avevo spremuto i miei polmoni, i quali chiedevano pietà senza essere minimamente ascoltati. Ero arrabbiata con me stessa, mi sentivo una sfigata. Insomma già il periodo delle medie è difficile per tutti, è il classico momento  in cui ti senti insicuro e vorresti essere apprezzato dalla massa perché solo in questo modo diventerai un adulto di successo. Mi ero fermata di nuovo e mi vergognavo,  come in quei sogni in cui ti ritrovi improvvisamente nuda davanti a tutti e non trovi i vestiti, il seguito della storia non me lo ricordo sinceramente.

Da lì a poco avrei avuto il mio primissimo ricovero ospedaliero, il primo di tanti, ma di questo argomento vorrei parlarne in un capitolo a parte quindi non mi dilungo troppo. 

In ogni caso poi l’ho capito il perché facessi più fatica degli altri, che la Fibrosi Cistica non era solo mal di pancia ma molto di più, così tanto che ancora oggi non ne conosco tutte le sue sfaccettature (per fortuna).

Da questo primo step è cominciato il classico rifiuto, l’ho chiusa in un cassetto sperando che non uscisse mai più. È sempre stato un rifiuto tranquillo devo dire (un po’ come i vegani che il venerdì sera vanno al Roadhouse): mi curavo, andavo alle visite e vivevo il tutto tranquillamente, perché era sempre stata quella la mia vita, ero abituata. Semplicemente al primo sentore di fatica sopprimevo tutte le emozioni, ignoravo il fiatone, la stanchezza, la tosse. Ho nascosto sotto il tappeto per anni.

Le superiori, classico periodo in cui senti dire da chi ti circonda: “Goditeli questi anni! Saranno i migliori della tua vita!” (falsi, lo siete e lo sapete), è stato alternato da alti e bassi, dico solo che con i bassi ho esplorato il centro della terra probabilmente. Anche sull’argomento “Scuola” vorrei approfondire più avanti, perché è stato un susseguirsi di discriminazioni (sia da parte della maggior parte dei compagni che da insegnanti).

Ci sono stati molti ricoveri, molti momenti no e molti momenti sì, e devo dire che il mio rifiuto si è trasformato in: ok ho questa cosa, ma sto bene, quindi va beh ci penserò.  Lei non ha tardato a rendermi partecipe della sua presenza, infatti l’anno dopo la mia maturità è stato anche l’anno peggiore della mia vita.

Per la prima volta ho avuto un bello schiaffo in pieno volto, mi sono approcciata con termini che non sapevo (o non volevo) potessero entrare nella mia quotidianità: “degenerazione”, “trapianto”, “morte”.  

Mi sono sentita per la prima volta completamente sola, pur avendo sempre i miei genitori accanto, ero sola nel mio corpo che si era spezzato, anzi che lo era sempre stato, ma mi ero sempre rifiutata di vederlo, di vedermi.

Ho urlato, ho avuto paura e la mia prima reazione è stata: io non lo faccio, qualsiasi cosa debba fare, non la faccio.

Guardavo la Fibrosi cistica e vedevo me stessa, aveva la mia forma: si era impossessata delle mie mani, della mia bocca, dei miei occhi, delle mie gambe. Si era presa tutto e mi sentivo affogare.

Nella mia testa cominciavo a dirmi: “Beh se tanto deve finire, preferisco godermela finché reggo”. Cosa che comunque non ho mai fatto, non per il coraggio di non scappare dalle difficoltà, ma solo per semplice paura, terrore di vedere la fine. Così, frustrata mi portavo dietro questa entità che continuava a seguirmi nonostante sapesse che non era la benvenuta, facevo le terapie perché “dovevo”, non c’erano altre opzioni, nella migliore delle ipotesi avrei rivisto le stanze di degenza dall’odore di naftalina, la peggiore non credo la volessi sapere.

La vera svolta è avvenuta la scorsa estate, dopo il mio ultimo ricovero: è stato un ricovero destabilizzante, ma per la prima volta sono riuscita totalmente a cambiare il mio rapporto con Lei, con la mia nemica numero uno, che non è mai stata la Fibrosi Cistica, ma sono sempre stata io. Sono stata seguita da due psicologhe eccezionali, per la prima volta ho detto ad alta voce pensieri che non avevo mai rivelato a nessuno, se non a me stessa durante qualche notte insonne, quel genere di pensieri che tieni per te e non dici a nessuno. 

Ho pianto per la prima volta in vita mia davanti a completi estranei, in realtà ho pianto davanti a tutti: psicologhe, infermiere, dottoresse, fisioterapiste. Ho lavorato sull’ansia, sulla convivenza con il dolore, con la malattia. Non accettazione, convivenza. Sono uscita dal ricovero che il mio focus era completamente cambiato, ho imparato ad amare il mio corpo, ho smesso di vederlo come un ammasso di carne in decomposizione.

Al momento la Fibrosi Cistica non ha più un volto, fa parte di me e continuerò a combatterla, non la accetterò mai e non deve essere accettata, bisogna combattere per far sì che la ricerca vada avanti e trovi una cura.  Devo combattere la Fibrosi Cistica e proteggere il mio corpo. 

Non sono grata a dio per essere stata bene per tanti anni o per non essere ancora in lista di trapianto, sono grata a me, alle persone che mi vogliono bene, ai dottori e al culo, perché fa sempre bene averne un po’ nella vita.

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