Capitolo 34: Naufragi









L’espoir est un plat bien trop vite consommé
À sauter les repas je suis habitué
Un voleur solitaire est triste à nourrir
Ah, jeux si amer, je ne peux réussir
Car rien n’est gratuit dans la vie”.
Le Festin, Camille, 2007.

In questi giorni sento come se stessi ingoiando tutta l’acqua del mare con il naso tappato. 

Cerco di essere produttiva, trasformare i tempi morti in qualcosa di costruttivo. Mi tengo impegnata: se non lavoro cerco di riempire ogni attimo: sistemo la libreria, sposto mobili, leggo a letto a pancia in giù, a pancia in su, mangio tantissimi toast, ascolto tutte le playlist, riapro Spotify ma è gratuito quindi partono tantissime pubblicità, mi innervosisco, impreco, lo spengo. Mangio le patatine affogate nella maionese allo yogurt, scrivo, non mi piace, cancello. Cancello. Cancello.

Stanotte ho sognato una ragazza, in una bara, che mi chiedeva come avrebbe fatto a sgranchirsi le gambe in uno spazio così ridotto e scomodo, mentre velocemente il suo viso si decomponeva e si accartocciava su sé stesso. 

Forse anche io sto cercando di asciugarmi i capelli sotto la pioggia, o sto pensando a come costruire una casa sulle sabbie mobili. 

Mi mancano le carezze, gli abbracci, parlare sottovoce nel buio della notte. Mi manca essere in due sentendosi uno, mi mancano i “ci vediamo domani”. Non riesco a trovare la mia oasi nascosta tra l’asfalto.

Esco sul balcone con le calze e un maglioncino sottile, ti vedo, e sono così felice che sento elettricità fino alla punta dei capelli, la mia pelle frizza come una bibita gassata.

Se un naufragio deve essere mi attaccherò il più forte possibile al pezzo di legno che mi tiene a galla, affonderò le unghie, non mi spaventeranno le onde troppo alte o il vento burrascoso.

Per il fiato che ritrovo quando sto con te, che sei i polmoni che non ho mai avuto.

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