Capitolo 10: Uascézze









Hey
Hey
I see color raining down
Feral feeling, swaying sound
But I don’t know what you want
I am open and I am restless
Let me feel it out
Let it all come out
Alligator, Of Monsters and Man, 2019
me e papo

Lunedì 13 Maggio ho ripreso la mia solita routine, o perlomeno ci ho provato: svegliarsi presto, fare le terapie, prepararsi, mangiare qualcosa di fretta e prendere il regionale veloce.

Per essere ancora più sicura mi sono ricoperta di disinfettante per le mani (no, non parlo di Amuchina, ma di un disinfettante con cui potresti farti un intervento a cuore aperto con le mani sporche). Me lo sono sparso ovunque e più volte: salita sul treno, dopo essermi riallacciata una scarpa, mentre aspettavo di scendere e poi in strada verso la scuola. Sembravo un po’ quelle maniache col pulito che come ammazzacaffè bevono il Dixan.

Nonostante tutti questi riti perpetrati per tutta la giornata, mi sono svegliata martedì con un potentissimo raffreddore e tosse persistente e senza pause. 

Sono susseguiti altri rituali: medicinali, tisane al finocchio, caramelline alla propoli, feci di castoro e sacrifici a satana, ma niente. Venerdì sarei dovuta partire con mio padre per Bari, per partecipare al WordCamp, che detto in soldoni è una giornata dedicata a conferenze web. Premetto che sono quattro o cinque WordCamp che compro il biglietto e all’ultimo rinuncio perché non sto bene, una sorta di maledizione non lo so.

Perciò capirete anche voi che Venerdì mattina, dopo due nottate quasi insonni a causa della tosse… beh, io sono andata.

Mi sono alzata dal letto, mi sono messa il correttore per coprire le occhiaie e ho preso il Frecciabianca delle 8:30.

Mi sono seduta al 13A, ho messo le cuffie e ho fatto partire la musica. Siamo arrivati dopo sette ore di viaggio, verso le 16 di pomeriggio a Bari Centrale. 

Sono scesa dal treno che mi girava la testa e tossivo in continuazione, facevo tre passi e mi fermavo, guardavo per terra perché era l’unica direzione permessa dal mio stato.

Siamo arrivati piano piano alla camera e mi sono stesa, chiedendomi se fosse stata la scelta giusta, forse ero stata troppo avventata, troppo superficiale o troppo egoista.

Mezz’ora dopo eravamo a camminare per Bari vecchia. Tossivo sempre, mi soffiavo sempre il naso, ma mi ero un po’ ripresa.

Ce la siamo girata tutta, ci siamo tolti le giacche e abbiamo mangiato un dolcetto tipico davanti al lungomare. Avevo il mare di fronte a me e non ci credevo.

Vorrei dire che ho ripensato a molte cose, mi sono venute in mente riflessioni particolari che voglio condividere, ma la realtà è che non ho pensato a nulla. Forse perché tra tutto era proprio la mia unica esigenza, non pensare a niente per un po’. Nessuna preoccupazione, nessuna urgenza.

Ho respirato più che potevo l’aria umida e salata e non ho pensato alla tosse che mi ribolliva in gola, a tutto quello che devo ancora recuperare a scuola, alle scadenze e al futuro.

Al futuro penso molto, continuamente. Odio fare progetti a lungo termine, perché ho paura di doverci rinunciare, odio farmi troppe domande su quello che succederà o meno. Inevitabilmente però i miei pensieri scivolano spesso in quella direzione, e mi ritrovo come quando si sogna di cadere, mi risveglio di soprassalto accorgendomi troppo tardi di essermi appisolata di nuovo.

Il fatto è che i progetti sono un cuscino comodo su un letto che profuma di bucato.

In questi ultimi anni ho rinunciato a non so quante esperienze, uscite, viaggi, appuntamenti. È stata la frustrante ricerca di una via di fuga in una stanza senza porte e senza finestre.

Per una volta ho voluto rischiare, era solo un raffreddore in fin dei conti, e anche se per noi non è mai “solo” un raffreddore, ho chiuso gli occhi e mi sono lanciata.

Non mi sentivo così bene da tanto tempo, i miei progetti sono stati rispettati, ho supportato mio papà che ha tenuto anche lui una conferenza, ho camminato sotto il sole primaverile nei colori sabbia di Bari, ho ascoltato una ragazza che cantava lirica in un sottopassaggio in pietra.  

Sono tornata distrutta e ancora malconcia, e nonostante i miei polmoni siano pesanti come al solito il mio cuore è più leggero del pulviscolo trasportato dal vento.

Piccola precisazione sul termine “Uascézze”:

“Uascézze. ….è un termine dialettale barese, di non immediata traduzione, che può riferirsi ad una mangiata festosa, ad una riunione tra amici, ma anche ad uno stato d’animo giocoso ed allegro”.
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